Tornare alla Rai? Neanche se fossi disoccupato. Enrico Mentana a StrateCo 2018
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Ad intervistare il direttore del TG di La7 Enrico Mentana è il sindaco di Firenze Dario Nardella (PD). Riportiamo l’intervista per intero.
Enrico Mentana comincia la sua carriera da giornalista negli anni ’80 in Rai finché nel 1994 diventa uno dei fondatori del TG 5.
No, io sono proprio il fondatore.
La domanda che più persone ci hanno chiesto di farti è: che doping usi per le tue maratone?
È una delle due domande che mi fanno sempre, oltre a sapere come gestisco i miei bisogno fisiologici durante le maratone. Domande di un forte spessore intellettuale, insomma. Sembrerà incredibile, ma credo sia molto più difficile seguire interamente una maratona, rispetto a condurla. La vera medicina per queste cose è la passione: nessuno di noi mollerebbe la partita della squadra del cuore alla fine del primo tempo, nemmeno se stesse perdendo 4-0. Per me è la stessa cosa: la voglia di vedere come va avanti, come va a finire, cosa succede, divertirmi a starci dentro. L’ultima cosa che si deve domandare è come faccio ad andare avanti per tanto tempo; piuttosto la prima domanda da fare è come fanno i telespettatori a reggere così a lungo, nel senso che una maratona non vive di me, ma dei fatti: se uno sta per ore e ore davanti alla televisione per seguire lo spoglio delle schede elettorali, è evidente che ne ha un interesse o di parte o sportivo.
La droga sono i fatti dunque. Parlando, appunto, dei fatti: credi che questo nuovo governo sia fatto per durare?
I governi che nascono per durare, in genere, durano poco. La verità è che l’arte del governo è come il matrimonio: bisogna essere in due, maggioranza e opposizione; ma al contrario del matrimonio, normalmente quando si è in due non si va molto lontano: un governo dura se non c’è opposizione. Quindi più che domandarci se sarà il governo a durare, dovremmo domandarci che opposizione ci sarà: se Berlusconi non avesse avuto una forte opposizione politica e giudiziaria forse sarebbe anche oggi al governo (lui sì, con l’uso di additivi). Se le due “belle addormentate nel bosco” che oggi dovrebbero fare opposizione non si riscuotono con l’arrivo di un principe azzurro o la bella fanciulla (la bella fanciulla l’ho aggiunta per la parità di genere, che di questi tempi non si sa mai), Lega e 5 Stelle possono governare fino al 3000.
Che ruolo hanno avuto i media in questa vittoria dei sovranisti?
Nessuno. I media non hanno mai nessun ruolo: ci sono ancora quelli che dicono “hanno vinto per colpa dei talk show”… I talk hanno al massimo 3 milioni di telespettatori, il 90% dei quali ha già la sua idea; quelli lì, i Cinque Stelle, hanno preso 11 milioni di voti: può darsi che la gente voti per sentito dire di un talk show o di un social network: la verità, però, è che il sovranismo esiste ovunque e sta riemergendo ovunque perché più vengono meno le ideologie, le sovrastrutture, più tornano le pulsioni di patria, il concetto di “i nostri” e “i loro”; c’è un esempio: quando crollò la Jugoslavia comunista, cosa riemerse? Le patrie, e con queste nacquero subito diverse guerre, perché i fenomeni di ripresa e possesso dello spirito patriottico e quindi del sovranismo in tempo di pace sono sempre cose potenti, certo, ma anche pericolose. Quello che voglio dire è che questa cosa c’era e c’è sempre: quando non c’è una proposta politica adeguata che organizzi la realtà, si torna a quelle che sono le passioni. Inoltre, questo sovranismo esiste perché son venuti meno altri fattori come la solidarietà: questa è stata troppo stiracchiata, è stata troppo edificante e un pochino zuccherosa, per cui la gente ha iniziato a dire “io non sono così solidale”, “io in realtà preferisco aiutare il mio che sta in periferia, rispetto a quello che sta nel campo nomadi”. C’è stata un’inversione di tendenza che poi si è ritorta contro anche i nostri fondamentali, che continuiamo a dover rivendicare. La solidarietà non può essere solo una parola, né tantomeno un concetto negativo. I respingimenti sono popolari in tutto il mondo, dall’Australia all’Inghilterra, ma non è detto che un concetto popolare sia per forza positivo, ma è, per l’appunto, popolare, per cui non si può ignorare. Facciamo un esempio surreale: se il sindaco di una città sa che il 60% dei cittadini è a favore della distruzione del centro storico, deve necessariamente tenere conto di questa cosa. Il populismo è nato perché non c’è una proposta politica forte. Se la gente si è messa a leggere quattro righe su Twitter anziché leggere libri, tu puoi anche dire che è colpa della gente, ma in realtà si è creata quella che, ai tempi, Gramsci avrebbe chiamato egemonia: in questo momento c’è un’egemonia culturale del linguaggio breve, sloganistico, apolitico, di parole d’ordine che sono vincenti perché sono assertive; nel grande magma dell’incertezza la gente vuole sentirsi dire cose chiare: “Prima gli italiani”, “Aiutiamoli a casa loro”, “Uno vale uno”… Sono slogan che non hanno la forza di un ragionamento, di un saggio, di un apparato di pensieri, ma vanno incontro a quello che la gente vuole sentirsi dire dal punto di vista della semplificazione di una situazione incerta e drammatica: tutto questo succede alla fine del tunnel della crisi, non dimentichiamolo mai. Sui social media si è creata una catena di sant’Antonio di asserzioni, ma questo problema si combatte facendo della buona politica, non raccontando palle su internet. Succede questo: se uno non costruisce un pensiero costruttivo contro questi slogan, la risposta della controparte sovranista e populista è già pronta: “Eh ma anche voi avete raccontato palle, illuso le persone, tramite giornali, telegiornali eccetera…”. Non dimentichiamo che si sente parlare di ripresa economica da diversi anni; lo stesso vale sul tasso di disoccupazione giovanile. Quindi, ed ora mi riferisco al sindaco intervistatore che appartiene a una forza politica destinata a stare all’opposizione, bisogna ricostruire una ragione d’essere e una capacità di proporre qualcosa di diverso aldilà del fatto di fare opposizione a questo governo, spiegando a tutti i giovani che cosa avete intenzione di fare con loro, cosa che finora non avete fatto. Bisogna spiegare ai giovani perché, nonostante il diploma e magari anche la laurea, si ritrovano con un pugno di mosche, altrimenti è chiaro che si crea una disillusione generale difficile da contrastare. Se non si fa così, non si compete: se i giovani hanno votato in massa il Movimento 5 Stelle, specie al sud, è perché almeno per alternativa gli ha dato una speranza che chi ha già governato non è riuscito a dare. E pensa che al sud è la prima volta che si raggiunge un voto maggioritario contro il potere locale e nazionale: non era mai successo nella storia della Repubblica.
E tu credi sia il reddito di cittadinanza ad aver convinto i cittadini?
No, è la speranza, e sai perché? I 5 Stelle hanno preso tanto più del 40% anche in regioni come la Puglia dove non c’è quasi per nulla il problema della disoccupazione. È qualcosa di più: non c’è un interesse personale, un tornaconto, e, per di più, forse i Cinque Stelle si preoccuperanno davvero del nostro avvenire, ed è questo ad aver giocato a loro favore, il fatto di non aver ancora governato e di non sapere minimamente a che cosa si va in contro, ed è inutile dare la colpa ai social network come fanno alcuni: tutte le persone sotto i trent’anni hanno una posizione aperta su Facebook. È come scandalizzarsi perché tutti hanno la carta di identità.
Tu hai inventato il termine “webete” proprio legato ai social-media. I “webeti stanno aumentando?”
No. Io credo che quella battaglia, in parte, sia stata vinta: siccome tutti o quasi sono sui social-network e la maggioranza non è formata da stupidi, anche se il partito si ingrossa. Ad esempio, sui vaccini c’è stata una forte offensiva sui social con documenti inventati, la correlazione vaccino-autismo… In realtà, però, anche sui social la battaglia è stata vinta; in questo momento è tutto nelle mani del governo: staremo a vedere che posizione prenderà a riguardo, però quella partita è stata già vinta. Poi, i cosiddetti “webeti” ci saranno sempre (che, tra l’altro, ho definito queste persone “webeti” una volta e ora me lo porterò avanti per sempre: sulla mia tomba ci sarà scritto: “Enrico Mentana: l’inventore della parola “webete”. E dire che nella vita ho fatto tante cose).
Insieme a te, al TG 5 c’era Emilio Carelli, che ora fa il politico con i 5 Stelle: che cosa pensi dei giornalisti che si danno alla politica?
Premetto: molti giornalisti che sono andati in politica sono poi tornati a fare giornalismo per la stessa rete in cui sto io, per cui non posso dire molto, diplomaticamente ma nemmeno in generale; io non sono quello che decide di che colore deve essere la cravatta degli altri, però ritengo che passare dal giornalismo alla politica sia una solenne minchiata, a meno che tu non sia stato messo in condizioni veramente gravi: Santoro si era candidato alle europee, ma gli avevano tolto il programma, lo avevano vessato in tutti i modi, e la sua protesta fu quella, e poi, per orgoglio giornalistico, lasciò la politica e tornò a fare il giornalista. Però, in generale, mi ripugna pensare che un giornalista che sta facendo bene il suo lavoro si metta a fare politica per due motivi: perché ritengo che il giornalismo sia più bello della politica, e perché chi va in politica si sentirà dire: “ma allora quando dicevi quelle cose lo facevi perché eri di parte…”; insomma, riverbera sul suo passato un motivato risentimento. Si rischia di muovere nei confronti di tutti i giornalisti, perché poi si generalizza sempre, l’accusa di essere di parte: io personalmente per evitare questa accusa non vado a votare da vent’anni.
A La7 avete lanciato una battaglia contro i politici che rifiutano il confronto; Gaia Tortora dice: “noi li invitiamo, ma devono accettare un contradditorio, altrimenti non ha senso”. Che fine sta facendo la libertà di informazione nel giornalismo?
Il discorso è più complesso di così, ma vado in poche battute: primo, Gaia Tortora ha ragione. Secondo, succederà che gli esponenti dei 5 Stelle e della Lega avranno dibattiti normali; terzo, da tanti anni abbiamo tutti dato l’occasione ai politici di fare le loro messe cantate: io ho avuto la fortuna di dirigere il primo confronto diretto tra politici: Occhetto contro Berlusconi nel ’94. Ma questo significa una cosa: fino al 1994 i politici non avevano confronti diretti. Non è una legge di natura, ma fu conquistata nella stagione del bipolarismo. Oggi le forze politiche hanno un grande piacere ad andare a fare le api regine con attorno i fuchi giornalisti che gli fanno le domande “comandate”, e questa abitudine l’hanno avuta tutti, Berlusconi, Renzi, Di Maio, Salvini, che adorano avere tutta l’attenzione per sé e vanno ai confronti diretti soltanto quando gli conviene, quindi in periodo elettorale o referendario; specialmente se si è indietro si cerca il confronto per accaparrare voti; in queste elezioni non c’è stato nessun confronto, perché chi è nettamente in vantaggio non ha il minimo interesse nel confrontarsi con i partiti più indietro. Chi è appassionato di calcio lo capisce benissimo: se tu sei a due giornate dal termine e hai lo scontro diretto, se vinci guadagni 3 punti e ne fai perdere altrettanti al tuo avversario, quindi di fatto è come prendere 6 punti. Vale lo stesso in politica. Questo è il motivo per cui Prodi non volle fino all’ultimo incontrarsi con Berlusconi, e aveva ragione, perché vinse per soli 24.000 voti nel 2006; allo stesso modo, Berlusconi non volle incontrarsi con Rutelli, e infatti non lo incontrò.
Trovi giusto che alcuni giornalisti vengano pagati per intervenire nei talk politici?
Beh, io personalmente non ho mai pagato un giornalista. Secondo me chi fa questa affermazione dovrebbe dire “So che X viene pagato per andare nei talk politici”; i giornalisti normalmente vengono pagati per l’esclusiva (tu giornalista vieni solo nel mio programma, non partecipi ad altri talk), e questo può anche essere sensato, perché poi il giornalista è comunque un lavoro. Io comunque specifico di essere venuto qui gratis. (Ride)
Come commenti il video di Conte che chiede a Di Maio “Questo posso dirlo?”?
Conte può essere Churchill o un flop totale. Le cronache dicono che ha detto a Di Maio “Ho perso la traccia, posso dirlo?” (dire di aver perso la traccia): quindi non è un episodio di sudditanza. Io nel corso della mia carriera ho sempre trattato come miserabile chi gioiva per i fallimenti e le difficoltà di altri partiti: l’interesse degli italiani è sempre l’interesse degli italiani, che tu sia nella maggioranza o all’opposizione. Solo un coglione può dire “che bello, quel partito ha fallito”, perché se ha fallito vuol dire che non ha fatto gli interessi del popolo.
Se tu avessi un problema da chi andresti per fartelo risolvere: da Di Maio, da Salvini o da Conte?
(Lunga pausa) Io mi tengo il problema (ride). Ma confesso che avrei detto lo stesso anche due anni fa (ride).
Salvini come Ministro dell’Interno: quanto sarà immagine e quanto sostanza?
Non so cosa sperare…
La classe politica di oggi parla al cuore, alla pancia o alla testa degli italiani?
Sicuramente alla pancia: se ti sono crollate addosso tutte le pareti ideologiche, come si fa a parlare alla testa delle persone? Parliamoci chiaro: si è tanto parlato, a proposito e a sproposito, degli errori di Renzi, ma la questione di fondo è che Renzi impone quella che è l’unica possibilità nel governo di un paese: l’esperienza amministrativa. I sindaci non fanno politica, ma amministrano, che vuol dire sapere qual è l’esistente e riuscire a razionalizzarlo per il bene comune. La politica è pensare al futuro. Con la fine delle ideologie non si parla più al futuro dei giovani. Il cuore e la testa dicono “scegliete me perché vi prometto questo”, ma le promesse sono solo sanatorie: questo è il retaggio di una politica che si è ristretta al campo dell’amministrazione del presente. Se non presenti un sogno sarai uno come gli altri: una volta vinci e una volta perdi, e finisci con l’essere visto come una delle due facce della stessa medaglia; o qualcuno propone qualcosa di nuovo, di diverso, o non potrà cambiare molto.
Con la città di Firenze abbiamo lanciato la proposta di ripristinare un’ora obbligatoria, con voto, di educazione alla cittadinanza a scuola: cosa ne pensi?
Io sono sempre stato assolutamente a favore; anzi, non nego di aver imparato la Costituzione nell’ora di Educazione Civica. Consideriamo che negli ultimi dieci anni la Costituzione è stata ampiamente usata per fini politici, da una parte e dall’altra. Addirittura un anno diedero un premio speciale alla Costituzione durante il Premio Stregain quanto è “la più bella del mondo”, questo perché c’era l’offensiva berlusconiana nei confronti della Costituzione, per non parlare della riforma costituzionale che provò ad apportare Renzi. La Costituzione è quella cosa che quando conviene si difende e quando è d’ostacolo va riformata, ma non è così che funziona, anche perché quasi tutti quelli che ne parlano non la conoscono, non ne conoscono lo spirito. Uno dei motivi di sconforto che abbiamo, è che da quando è finito il Novecento non si ricordano più le ragione storiche legate alla Costituzione e che hanno portato alla stesura della stessa: se non c’è un leader forte ma un Presidente del Consiglio dei Ministri è perché l’Italia veniva dalla dittatura; per capire se occorre cambiare o meno la Costituzionebisogna sapere che cosa è stata storicamente, bisogna sapere che nasce sulla macerie, sul fumo, sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale che noi abbiamo perso, che hanno vinto gli anglo-americani con l’aiuto dei russi perché noi, o meglio, tanti italiani erano fascisti, e così come i tedeschi non abbiamo mai fatto fino in fondo i conti con la nostra storia; così, se non si conosce la Costituzione, non si capisce perché noi siamo qui oggi e tutto diventa il contrario di tutto: è questo il problema di fondo. Per cui ben venga Educazione Civica: un’ora, due ore, dieci ore alla settimana!
Veniamo al PD…
Sunt lacrimae rerum…
Che cosa deve fare ora il PD?
Innanzitutto uno deve ricordare che 12 anni fa il PD non esisteva. Non è lo stato di natura. Così come spesso dico ai giovani di fare attenzione, perché la pace e la democrazia non sono lo stato di natura, ci sono persone che hanno lottato per questi ideali; queste cose vanno difese perché non sono lo stato di natura, ripeto, ma sono una conquista ottenuta: lo statuto dei lavoratori, 1970, fu il culmine della stagione riformista in Italia ed il motivo per cui se ci si mette mano bisogna essere molto accorti. Ma di cosa stavamo parlando?
Di quella cosina… Il PD…
Stavo cercando di dimenticare. La sinistra è andata a sbattere contro la questione di fondo: la centralità operaia non esiste più, perché non c’è più socialmente né in Italia né altrove; la difesa degli ultimi non esiste più, perché gli ultimi sono diventati o i penultimi o i terzultimi e odiano gli altri penultimi e ultimi, a cominciare dagli immigrati. Dunque bisogna chiarire che cosa serve per essere una forza progressista, moderna, che cerca di stare dalla parte di tutti contro gli egoismi. Questo è un problema del PD e di tutta la sinistra. Il PD ha vagato tra scissione, riunificazione, partito di Renzi, partito della nazione, “flirtino” con Berlusconi (che, per altro, bisogna essere poco gelosi per farlo)… Che cosa vuole fare il PD non lo so, ma è questione di che cosa vogliono fare le persone di centro-sinistra: è un problema degli elettori, non degli eletti. La forma PD per me non ha un’aspettativa di vita enorme, nel senso che ci sono eletti da tutte le parti, compreso tu, e la forma “partito” deve essere ripensata, ma prima le idee, prima le idee! Invece il dibattito del PD è “prima lo struttura o prima gli uomini?”. Io devo dire una cosa: Gentiloni è una persona estremamente per bene, però non è un leader.
Il primo Prodi era un leader?
No, perché non era il capo della coalizione; era il Conte del centro-sinistra. Prodi venne scelto perché era un elemento di mediazione fra tutti.
Però l’Italia finisce col premiare i non-leader a volte…
Ma perché c’è quella cosa lì: se tu non vai al bipolarismo pieno, per forza devi metterti assieme ad altri. Come ha fatto Prodi a vincere entrambe le volte? Ha messo insieme delle maggioranze di persone che flirtavano con Confindustria e persone che lo facevano con l’antagonismo operaio: erano coalizioni così ampie che si rompevano dopo due anni. Da questo punto di vista, la coalizione Lega-M5S è molto più affine, quindi non avrà di questi problemi. Pertanto se hai un leader con una coalizione sei forte, ma se non hai un leader né una coalizione come in questo momento il PD, è evidente che non può essere né Renzi, né Gentiloni, né Franceschini, né Calenda a guidare il partito perché il problema non è la faccia, ma l’idea giusta: nessuno si pone il problema di chi sia l’amministratore delegato della Coca-Cola, perché quella vende di suo. Tu ci puoi mettere anche il più grande amministratore del mondo, ma se devi vendere il telefax non puoi pensare di spaccare sul mercato. Il rischio è che la destra e la sinistra la facciano la Lega e il M5S, che potrebbero riempire tutti gli spazi per sopravvenuta non necessità degli altri partiti esistenti.
Credi ancora nell’Europa?
È come chiedere ai siciliani se credono nell’Isola: noi siamo in Europa. Le istituzioni europee sono chiaramente traballanti, ma perché l’Europa non ha un cuore, non l’ha mai avuto. Essere europeisti non vuol dire assolutamente niente: immagino che se la Fiorentina entrasse in Champions League tu saresti molto più europeista, per dire. È chiaro che l’appartenenza deve avere una convenienza. Anche in questo caso, l’Europa nasce sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, l’hanno fatta vincitori e vinti che si sono riaffratellati. È questa la questione di fondo. La cosa straordinaria è che dei sei paesi fondatori dell’Europa, cinque di questi fino a dieci anni prima erano invasi dal sesto, la Germania. Pensate: solo dieci/undici anni dopo è nato l’embrione dell’Europa: il Trattato di Roma. Però c’è stato un trauma terrificante. Noi non possiamo permettere che si ripresenti un trauma delle dimensione della Seconda Guerra Mondiale per tornare a pensare all’Europa, perché così si rischierebbe di ridurla a una mera espressione geografica.
Come sarà questa Europa dopo le elezioni del prossimo anno, secondo te?
Sarà l’Europa che ha già vissuto il trauma austriaco, il trauma ungherese, quello della Brexit, quello italiano. Sarà un’Europa che forse vedrà espandersi ulteriormente la scissione che c’è tra gli attuali europeisti e gli anti-europeisti. Ci vuole un bel coraggio a definirsi europeisti, ma perché non si capisce che cosa significa “europeista”. Rischi di essere associato alla faccia di Junker che ti dice “devi rispettare i patti”: con tutto il rispetto: si sogna poco con questa situazione, anzi, non si sogna per niente. Una forza politica che si presenta alle elezioni europee dell’anno prossimo deve dire “Basta con questa Europa”, anche se è europeista.
Hai accennato alla Champions… Tu sei interista sfegatato, tuo fratello è team manager del Milan: come vivi questo derby in famiglia?
Sono nato prima io, quindi…
Senti, ma siete diventati un po’ masochisti anche voi interisti?
Beh, elevando la discussione: il tifo calcistico è in gran parte masochismo. Se tifi per una squadra che vince sempre, sei un arbitro fondamentalmente… A parte gli scherzi: la Juve è una grande squadra, bisogna dire le cose come stanno. Però io, quando l’Inter mi fa soffrire, penso ai tifosi del Genoa, dell’Empoli… Fare il tifo insegna che si va più spesso in contro a una delusione, ed è bello quando vieni promosso, quando gioisci perché sei entrato in Europa League, o hai fatto una bella partita o hai battuto la tua avversaria nel derby: il calcio è questo. Il calcio è forte soprattutto nella sconfitta, nella sofferenza. Tu dirai, che cosa c’entra tutto questo col PD… (ride)
Devo ringraziarti: da tifoso della Fiorentina mi hai dato un grande spunto…
… E non solo da tifoso della Fiorentina (ride)
E va beh ragazzi… Torniamo a noi: un giornalista come te non potrebbe non essere nella lista dei candidati per il ruolo di direttore generale della Rai. Se te lo proponessero che cosa risponderesti?
No. È un “no” grosso come una casa per una serie di motivi. Primo: un giornalista non deve mai cambiare mestiere, e fare il direttore generale della Rai è come fare il parlamentare: un lavoro che io giudico meno bello. Secondo: io in Rai non tornerei mai, finché non si decidono a far uscire la politica dalla rete, che si chiami PD, Lega, M5S, Forza Italia, perché se vieni designato a qualsiasi cosa in questa Rai, poi ti arrivano le telefonate dei partiti; devi fare un lavoro che non è affatto libero. Insomma, con grandissimo rispetto per chi lavora alla Rai, sto bene dove sto e se ci stessi male non tornerei alla Rai, neanche se fossi disoccupato, perché quella è una distorsione dell’Italia. Esiste un servizio pubblico che dipende dal Parlamento, quindi da partiti: è un’insensatezza che viene accettata da tutti, perché a volta a volta fa comodo a tutti. Il diritto di tribuna una cosa che riguarda il Parlamento, non la televisione. Inoltre, prendiamo i partiti politici: loro preferiscono andare dove ci sono gli applausi a comando, e consideriamo anche che la televisione politica è quella a più buon mercato; non si pagano i cantanti, gli attori, le esclusive delle dirette. Sono programmi a costo zero. Riprendendo quello che dicevamo prima, i partiti stabiliscono le condizioni per apparire nei talk show: sono loro che fanno fare ascolti, per cui le condizioni vengono stabilite da loro, a partire dal rifiutare il contradditorio. Io ho fatto tantissimo giornalismo politico in questi otto anni di La7, ma a patto di stare un passo di lato rispetto ai partiti.
Puoi lanciare ai giovani presenti un messaggio ottimista?
Io ho sempre detto che se non vi unite, non cambierà niente. Io dico che appartengo a una generazione che ha visto come sia possibile farsi valere soltanto se si agisce come un sindacato generazionale. A voi non aiuterà nessuno, se non vi aiutate tra di voi. E non si tratta di fare una mafia o una massoneria, si tratta di comprendere che la società italiana è stata plasmata su misura dei vostri predecessori, che si sono venduti inavvertitamente e incolpevolmente il vostro posto nel mercato del lavoro nel futuro. Nessuno dei miei coetanei che volesse lavorare non ha potuto lavorare. Dirò di più: la maggioranza assoluta dei miei coetanei che voleva fare il giornalista, ora fa giornalismo; oggi non ci riesce neanche il più bravo, per colpa delle generazioni precedenti, ma anche per l’egoismo della politica che siccome la maggioranza non sono i giovani nel corpo elettorale, favorisce la maggioranza attuale in una miopia di massa, dove è più importante il sindacato dei pensionati che il sindacato, che non esiste, dei giovani: allora più che ottimismo, il mio è un invito alla lotta, perché se vi aiutate potete fare tutto, se fate squadra politicamente, socialmente, sindacalmente. Tutti i miei coetanei guadagnano i maniera tale, se hanno fatto successo, di poter veder decurtato lo stipendio affinché si possa accantonare per l’assunzione dei giovani: i tirocini. Se lo facessero tutti ci sarebbe un vero e proprio passaggio generazionale. Ma non è solo il discorso della solidarietà generazionale. Nelle aziende italiane, anche quelle con un livello di tecnologie più elevato, l’età media è di 48/50 anni perché in Italia nessuno va in pensione, e non solo per via la Fornero. Questo accade perché in questi anni di crisi è stato salvaguardato il presente, anziché il futuro. Il sindaco lo sa, perché territorialmente è così: se un’azienda va in crisi, la prima cosa da fare è tutelare l’occupazione, ma nessuno pensa a quelli che verranno dopo. Chi lavora, solitamente, viene salvaguardato, ma nessuno, in periodo di crisi, pensa ai futuri lavoratori. Pertanto o al futuro, che è il vostro, ci pensate voi, o la pappa pronta non ve la fa trovare nessuno.
Ultima domanda: dacci l’hashtag delle prossime settimane…
(ci pensa un po’): #MaConteConta?
Autore: therelitto, Bidendum
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